TRA PAURA E SCARAMANZIA
Se i cittadini italiani preferiscono spendere i propri soldi nel gioco d’azzardo, o in maghi e fattucchiere, è evidente che la battaglia sull’educazione al rischio è persa in partenza. Eppure continuare a combatterla conviene a tutti: senza contrapposizioni tra Stato e settore privato
05/12/2016
👤Autore:
Fabrizio Aurilia
Review numero: 39
Pagina: 56 - 59
☁Fonte immagine: freshidea - Fotolia.com
Diciamoci la verità: parlare di protection, di protezione della persona, fa un po’ paura. Per la maggior parte dei cittadini italiani, le polizze Tcm, Ltc, previdenza, sanità integrativa, copertura abitazione sono ancora un tabù: qualcosa di cui ogni tanto si sente discutere in giro. Ma sono argomenti pesanti, difficili.
Le compagnie assicurative, gli operatori di settore, hanno paura di guardare, alla fine dell’anno, il dato della vendita dei prodotti protection per scoprire che, nonostante gli sforzi (veri o presunti), la crescita è da prefisso telefonico, come si dice in questi casi. E poi anche chi scrive spesso di questi argomenti teme di ritrovarsi a girare intorno al problema, senza apprezzabili novità rispetto alla volta precedente. Il rischio è alto, quindi, in tutti i sensi.
Tuttavia, quest’anno qualcosa è cambiato davvero. Forse qualcosa di marginale rispetto al problema più generale della sottoassicurazione all’italiana, ma certamente qualcosa che, unito all’onda lunga di un dibattito decennale, e al contesto di un’economia che ha tolto i rendimenti del ramo vita alle compagnie, potrà innescare “un circolo virtuoso fra benessere dei lavoratori e maggiore produttività, ed essere visto come un vero e proprio investimento”, come ha scritto Franca Maino nell’ultimo Quaderno curato da Itinerari Previdenziali, Assoprevidenza e Percorsi di secondo welfare. È il welfare in azienda che va verso una concezione più moderna, “meritevole di condivisione paritetica tra le parti per una crescita economica condivisa”.
La legge di Stabilità 2015 ha consentito di superare il limite della volontarietà, ampliare il paniere dei servizi (si veda la cura dell’infanzia e della non autosufficienza), e favorire lo sviluppo di nuovi strumenti.
Tuttavia, la nuova regolamentazione è funzionale alle imprese con oltre i 15 dipendenti, mentre non lo è per le altre, cioè il 95% delle aziende italiane, soprattutto a causa della difficoltà di confezionare voucher in maniera coerente.
MALE MA NON MALISSIMO
Il punto da cui partire non è il singolo elemento, ma la visione d’insieme. “A me pare manchi una concezione unitaria del welfare integrativo: si guarda al welfare in maniera atomistica, frammentaria, invece occorrerebbe avere un approccio unitario”. A dirlo è Alessandro Bugli, membro del Centro studi e ricerche di Itinerari Previdenziali, e avvocato dello studio legale Taurini-Hazan. Bugli ha una visione originale sulle questioni legate al welfare: per esempio non crede che le cose vadano poi così male, se si considera che la vera spinta è stata data neanche 10 anni fa, anche se il ritmo è un po’ più lento di quanto ci si attendeva nel 2007: sette milioni di iscritti alla previdenza integrativa, e circa 10 milioni sulla sanità, tra aderenti e familiari, non è un risultato da buttare. “Anche se siamo ancora in coda ai Paesi Ocse”, aggiunge.
Il problema centrale è intercettare grandi masse d’iscritti ben bilanciate: “avendo a disposizione – spiega l’avvocato a Insurance Review – una platea eterogenea di giovanissimi, giovani, adulti e anziani, si riesce a mutualizzare correttamente. Se viceversa occorre andare a prendere singolarmente i rischi e i clienti, i prezzi lievitano e il sistema diventa sempre meno attrattivo. Ecco perché occorre ragionare con una logica di all risk, in cui un prodotto o un fondo riesca a radunare e coprire tutte le esigenze di protezione”.
Esigenze che ci sono e che, al contrario della vulgata di settore, sono percepite: occorre però mettere rischi e bisogni nella corretta prospettiva, e saperli affrontare nel modo giusto.
OLTRE LA BUSTA ARANCIONE
In questo senso si muove da sempre il Forum Ania-Consumatori, che negli ultimi anni sta notando un deciso incremento d’interesse e consapevolezza dei cittadini verso i propri bisogni di protezione. “I nostri progetti – spiega il segretario generale, Giacomo Carbonari – servono a far comprendere davvero ai cittadini ciò che è ancora coperto dal welfare pubblico e ciò che è scoperto, e che quindi va protetto attraverso proprie iniziative”.
Il Forum ha elaborato proposte concrete, tese a creare un sistema sempre più integrato tra soggetti pubblici ed enti privati. Alcune di queste sono diventate d’attualità solo negli ultimi tempi: pensiamo alla riforma dei livelli essenziali di assistenza nella sanità, e alla busta arancione nella previdenza. “Ma si potrebbe fare di più”, aggiunge Carbonari, proponendo all’Inps di fornire non solo le prestazioni pensionistiche attese, ma anche le altre prestazioni di cui un cittadino può avere bisogno e che sono già previste dallo schema obbligatorio di appartenenza, come quelle in caso di invalidità e le prestazioni al nucleo familiare superstite.
“Tuttavia – ammette Carbonari – la maturazione di un’intera collettività richiede anni. Per questo siamo fortemente impegnati nello sviluppo della cultura assicurativa a partire dalle scuole, con programmi didattici dedicati, su temi quali prevenzione, mutualità, previdenza e pianificazione del futuro”.
Anche la fiducia verso il settore dei rischi sta aumentando, proprio perché si amplia il ricorso allo strumento assicurativo. “Chi usufruisce dei servizi, e chi ha un contatto costante con le assicurazioni – sottolinea il segretario generale del Forum – mostra un buon livello di soddisfazione. In realtà, quindi, occorre sfatare il pregiudizio negativo che si ha verso le assicurazioni, anche perché la maggior parte dei clienti delle compagnie questo pregiudizio non lo ha”.
SUBIRE IL CAMBIAMENTO
Il tempo è quindi una delle risposte. Cambiare mentalità a un popolo intero non è semplice, nemmeno se si agisce insieme e si mettono in campo le azioni più corrette: anche perché non sempre si fa così. In ultima analisi, ci può essere anche un problema generazionale: ovvero, c’è una generazione che questo cambiamento lo sta subendo come qualcosa di anormale. Se tutti avessero un familiare che percepisce una pensione il cui tasso di sostituzione è pari al 30%, come accade normalmente nel Regno Unito, saprebbero che la previdenza complementare è essenziale.
Secondo la visione di Alessandro Bugli, il cittadino dovrebbe pensare a sottoscrivere al più presto una forma di pensione complementare, non tanto in funzione dello Stato che batte in ritirata, quanto più perché la pensione pubblica, essendo calcolata con il regime contributivo, non sarà eccezionale, anche se si dovesse applicare un tasso di sostituzione del 100%: “la ragione – sottolinea – è che il reddito di un lavoratore dipendente italiano è più basso della media dei Paesi europei”.
Tuttavia, anche il problema dei redditi bassi, talvolta, è un pretesto. Per la sanità, per esempio, già i cittadini spendono privatamente quasi 35 miliardi di euro l’anno, che si sommano ai 110 del sistema sanitario nazionale.
I cittadini italiani devono ancora imparare a spendere bene i propri (pochi) soldi: nel 2015 la spesa totale per il gioco d’azzardo (quello legale) è stata pari a 17,5 miliardi di euro; mentre il fatturato, presunto e totalmente in nero, di sedicenti maghi e fattucchiere, nel 2013 era stato di 6,3 miliardi, sulla base di una spesa media pari a 500 euro per prestazione. È più affidabile un fondo pensione o una slot machine? Forse una maga.
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