SOTTO IL PESO DELL’ASSISTENZA

L’ultimo rapporto di Itinerari Previdenziali ribadisce il fardello delle prestazioni assistenziali su un welfare state che ormai pare troppo generoso per poter essere sostenibile anche nel lungo periodo: serve una chiara e netta inversione di tendenza. Bene invece l’assetto pensionistico, ma attenzione alla transizione demografica

SOTTO IL PESO DELL’ASSISTENZA
Il welfare state in Italia si conferma malato di assistenzialismo. Nel 2023 la spesa complessiva per prestazioni assistenziali è ammontata a 164,43 miliardi di euro, in decisa crescita (+4,72%) rispetto all’anno precedente e più del doppio (+125,25%) rispetto ai soli 73 miliardi di euro che erano stati stanziati all’inizio dell’ultima grande crisi finanziaria. Dal 2008 le uscite per l’assistenza hanno messo a segno un tasso medio di crescita annuale del 5,21%, ben più alto dell’andamento dell’inflazione e del Pil, addirittura più del triplo rispetto a quanto fatto registrare dalla spesa per pensioni. Tutti fondi che sono stati attinti dalla fiscalità generale e che quindi sono stati di fatto sottratti ad altre voci di spesa cruciali per lo sviluppo del Paese: nel 2023, giusto per avere un’idea, gli stanziamenti per scuola e università si sono fermati ad appena 83 miliardi di euro. Ecco perché, per usare proprio le stesse parole dell’ultima edizione del tradizionale rapporto annuale curato dal centro studi e ricerche Itinerari Previdenziali, l’assistenza è ormai diventata “il vero tallone d’Achille della spesa per la protezione sociale italiana”.
Presentato lo scorso 15 gennaio a Roma, presso la Sala della Regina della Camera dei Deputati, il rapporto fotografa come ogni anno le dimensioni di un welfare state che in Italia, trascinato da una crescita delle spese assistenziali che il centro studi non tarda a definire ormai “fuori controllo”, sembra diventato troppo generoso per poter pensare che possa essere anche sostenibile nel lungo periodo. Lo scenario che ci troviamo di fronte, come ha osservato il presidente del centro studi, Alberto Brambilla, “dovrebbe far riflettere tutti i cittadini, pronti a ogni tornata elettorale a premiare le promesse più generose, senza domandarsi chi dovrà poi sostenerle finanziariamente o a quali altre fondamentali funzioni dello Stato saranno sottratte”.

UNA QUESTIONE (ANCHE) DI QUALITÀ

Il grande tema dell’assistenzialismo non è tuttavia soltanto una questione di quantità. Anche la qualità, secondo i numeri del rapporto, lascia infatti molto a desiderare. La conferma arriva dai dati dell’Istat sulla povertà. Nel 2023 si contavano in Italia 5,7 milioni di persone in condizione di povertà assoluta, quasi il triplo rispetto ai 2,1 milioni che c’erano invece all’inizio della crisi finanziaria del 2008. In pratica, molto rumore per nulla: la crescita della spesa per prestazioni assistenziali non sembra insomma aver sortito alcun effetto tangibile.
“Viene quasi da dire che non solo spendiamo molto, ma spendiamo anche male”, ha commentato Brambilla. Il sistema, detto in altri termini, non funziona: assorbe troppe risorse, sottrae fondi ad altri capitoli del bilancio pubblico, soprattutto non pare in grado di rilevare le vere aree di bisogno e di fornire un aiuto concreto a chi si trova in difficoltà. Pesa una certa assuefazione a quello che il rapporto definisce “assistenzialismo di Stato”, così come la conclamata inefficienza di tutta la macchina organizzativa: finora non è stato effettuato alcun tipo di riassetto di una disciplina che ha visto negli ultimi anni sommarsi prestazioni su prestazioni. Manca poi una banca dati centralizzata che possa fornire indicazioni puntuali su chi eroga, chi riceve e a quanto ammontano le singole prestazioni assistenziali. Per Brambilla serve un deciso cambio di rotta. “È necessaria una stretta sull’assistenzialismo, così come interventi sul mercato del lavoro per rafforzare formazione, politiche attive e strumenti di incontro fra domanda e offerta, senza dimenticare una profonda revisione dell’Isee e politiche più efficaci di controllo fiscale”, ha affermato.

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UN DIFFICILE FINANZIAMENTO

Quello dell’assistenza è soltanto un capitolo (senz’altro il più problematico) di un più ampio assetto di welfare che in Italia, come già accennato, è ormai diventato troppo generoso per poter essere anche sostenibile nel lungo periodo. Le dimensioni del fenomeno sono chiare fin dai numeri. Nel 2023, come illustra il rapporto, la spesa complessiva per pensioni, sanità e assistenza è arrivata a 583,71 miliardi di euro, con un incremento del 4,32% rispetto all’anno precedente. In pratica, più della metà della spesa pubblica complessiva è stata di fatto assorbita dalle uscite per le prestazioni sociali. “Tutto ciò confuta l’opinione comune secondo cui l’Italia investe poco in misure di welfare: siamo ai vertici della classifica europea per rapporto fra spesa sociale e Pil”, ha detto Brambilla.
Valori così elevati pongono tuttavia un problema di tenuta e finanziamento. Soprattutto per quanto riguarda la sanità e la già citata assistenza che, a differenza di quanto avviene per la previdenza, non sono sostenute da contributi di scopo e risultano quindi totalmente a carico della fiscalità generale. Il rapporto, a tal proposito, stima che nel 2023 per finanziare le spese per sanità e assistenza ci siano volute tutte le imposte dirette, più altri 33 miliardi di euro provenienti dalle imposte indirette. Per sostenere tutto il resto della spesa pubblica non resta quindi che attingere ai fondi residui e, soprattutto, a un debito sovrano che proprio nelle ultime settimane ha superato la soglia dei 3.000 miliardi di euro. Troppo per pensare che il sistema possa essere sostenibile anche nel lungo periodo senza un deciso cambio di rotta.

IL SISTEMA PREVIDENZIALE TIENE

Decisamente più positivo il giudizio del centro studi sull’assetto del sistema pubblico previdenziale. Nonostante la perenne discussione su una possibile riforma pensionistica, l’assetto tiene. Almeno a un’analisi che sappia andare oltre gli ultimi numeri del bilancio. Già, perché anche il sistema pubblico previdenziale ha mostrato nel 2023 un certo deficit. La spesa pensionistica, comprensiva delle prestazioni è ammontata a 267,11 miliardi di euro, in aumento del 7,8% su base annua. Gli introiti contributivi, seppur anche in questo caso in crescita (+5,22%), si sono invece fermati a 236,68 euro. La differenza, calcolatrice alla mano, fa un deficit di oltre 30 miliardi euro.
Uno sguardo più approfondito mostra però una realtà diversa. L’incidenza della spesa pensionistica sul Pil nel 2023 è stata pari al 12,55%. Depurata tuttavia dai 22,81 miliardi di euro relativi a interventi assistenziali per i dipendenti pubblici, maggiorazioni sociali e integrazioni al minimo, la percentuale scende all’11,48%, valore più che in linea con la media europea. E sprofonda addirittura all’8,56% se si escludono anche i circa 62,2 miliardi di imposte che i pensionati pagano sui propri assegni previdenziali. Il saldo fra entrate e uscite, a conti fatti, diventa quindi positivo.

NEL PIENO DELLA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA

Il sistema pensionistico italiano mostra dunque una certa solidità. Anche dal punto di vista dei fondamentali che stanno alla base del patto generazionale e previdenziale. Lo studio, in questo contesto, evidenzia che il rapporto fra attivi e pensionati ha raggiunto nel 2023 il nuovo massimo storico di 1,46, sempre più vicino quindi a quella soglia di 1,5 che potrebbe teoricamente garantire la tenuta a medio e lungo termine del sistema previdenziale. “I conti della nostra previdenza reggono, e dovrebbero farlo anche tra 10-15 anni, nel 2035/40, quando la maggior parte dei baby boomer nati dal dopoguerra al 1980, coorti molto significative in termini previdenziali data la loro numerosità, si saranno pensionate”, ha commentato Brambilla.
Tutto bene dunque sul fronte previdenziale? Non proprio, perché il sistema risulta comunque sottoposto a forti pressioni. Il rapporto si concentra soprattutto su una dinamica demografica caratterizzata da bassa natalità e allungamento della speranza di vita. Il risultato è una popolazione che invecchia velocemente, in cui in futuro il numero di lavoratori potrebbe non essere più sufficiente a sostenere le esigenze dei pensionati. In questo scenario, la ricetta di Itinerari Previdenziali è piuttosto semplice: incentivare la produttività del lavoro, sostenere la formazione e l’inserimento lavorativo, favorire programmi di invecchiamento attivo, limitare le misure di anticipo pensionistico e puntare su una maggiore integrazione fra pubblico e privato. Quello che serve, come si legge nelle conclusioni del rapporto, è “un serio cambio di rotta da parte del nostro paese, che al momento naviga a vista, senza una bussola, dinanzi alla più grande transizione demografica di tutti i tempi, con grande parte della spesa pubblica indirizzata verso sussidi e assistenzialismo, quando invece la doverosa priorità sembrerebbe essere una seria revisione dei propri modelli produttivi e del proprio mercato del lavoro” ha concluso Brambilla.

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