IL GIUDIZIO NELLE RESPONSABILITÁ DEGLI AMMINISTRATORI
Alcune importanti pronunce rese dalla Suprema Corte delimitano l’ambito e le estensioni possibili, fornendo chiarimenti nelle fasi di accertamento e di liquidazione del danno
27/03/2017
Sono vari i criteri adottati per accertare e liquidare il danno arrecato da atti di mala gestio commessi dall’organo amministrativo, quando essi hanno condotto a una situazione di dissesto della società.
I due principali sono costituiti dal criterio della differenza tra attivo e passivo della società fallita e dal criterio della differenza dei netti patrimoniali (quando si contesti agli amministratori di aver illecitamente consentito il proseguimento dell’attività aziendale).
A partire dal 2011 si era venuto creando un contrasto tra pronunce giurisprudenziali, laddove veniva ammesso l’utilizzo del primo criterio nel caso in cui la irregolare tenuta o il mancato rinvenimento delle scritture contabili non consentiva al curatore di indicare specificatamente il singolo atto illegittimo e il nesso di causalità tra esso e il danno verificatosi.
Con la sentenza 9100 del 2015, la Suprema Corte è intervenuta sul tema a Sezioni Unite, chiarendo innanzitutto che dall’inadempimento delle obbligazioni degli amministratori stabilite dalla legge e dallo statuto della società non necessariamente deriva un danno, e che quindi deve sempre essere accertato il nesso di causalità tra lo specifico inadempimento contestato e il danno arrecato.
Ciò posto, è chiaro che un danno di tale portata da provocare in via univoca il dissesto e la sottoposizione della società al fallimento, e che dunque giustifichi una quantificazione in termini di deficit, potrebbe derivare solamente da una grave e costante violazione del dovere di diligenza degli amministratori in carica, circostanza che nella prassi è difficilmente riscontrabile.
Nell’ipotesi di mancanza o irregolare tenuta delle scritture contabili, per esemplificare, si è anche sottolineato che l’inadempimento dell’amministratore non è necessariamente produttivo di un danno patrimoniale. Le passività che in esso dovrebbero essere riportate non sono necessariamente provocate dalla mancanza del documento contabile, il quale potrebbe al massimo essere d’aiuto nel ricostruire perdite già subite.
Peraltro, la quantificazione del danno non può, in conformità con i principi dell’ordinamento, mai essere effettuata su basi sanzionatorie ma deve conformarsi al principio indennitario. Una deroga a tali assunti non è giustificabile nemmeno dall’impossibilità per il curatore di quantificare il danno in altro modo.
IL CRITERIO DIFFERENZIALE DEL DEFICIT NON E' AUTOMATICO
In sintesi, la Suprema Corte esclude la possibilità di liquidare tout court il danno facendo riferimento alla differenza tra l’attivo e il passivo della società, pur in caso di irregolare tenuta delle scritture contabili. Tuttavia, in tale ipotesi, il curatore sarebbe abilitato a chiedere una pronuncia in via equitativa, ricorrendone tutti i presupposti, e il giudice sarebbe tenuto ad indicare le ragioni in base alle quali non sia stato possibile l’accertamento in maniera più puntuale e specifica, per poi quantificare il danno in termini di deficit.
La Suprema Corte, con sentenza 8802 del 2016, ha confermato la legittimità del ricorso a una valutazione equitativa del danno basata sul criterio differenziale tra attivo e passivo, spingendosi ad ammettere che la quantificazione del danno possa essere effettuata sulla base di valutazioni prognostiche in ordine al probabile esito positivo delle insinuazioni tardive e delle opposizioni allo stato passivo.
Dunque, la giurisprudenza di legittimità limita ed esclude la possibilità di applicare automaticamente il criterio differenziale del deficit, dovendosi sempre e comunque valutare la effettiva incidenza del comportamento sulla perdita subita dalla società e limitando l’utilizzo di criteri equitativi ai casi in cui non sia possibile fornire una prova specifica del danno.
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