PONTE MORANDI, UN’INNOVAZIONE D’ALTRI TEMPI
La struttura collassata il 14 agosto scorso era figlia di una concezione ottimistica del modo di costruire. Oggi non si progetta più così, e anche per fare controlli e manutenzione ci vogliono meno tempo e meno soldi. Ora occorre ripartire da un progetto serio e realistico
18/10/2018
Il ponte Morandi di Genova, inaugurato 51 anni fa, non era uno splendido cinquantenne, per parafrasare Nanni Moretti (che diceva quarantenne) nel primo episodio di Caro diario. I suoi anni, purtroppo, non li portava benissimo, ed era una cosa nota a molti, forse a tutti quelli che se n’erano occupati nel tempo. Proprio perché lo stato d’invecchiamento era conosciuto, l’infrastruttura era costantemente monitorata e controllata.
Il ponte è lungo circa 1200 metri ed è, come noto, parte di un’autostrada al centro di snodi importanti per il Nord Italia: il ponte Morandi rappresenta un collegamento fondamentale per la Genova portuale e il resto d’Europa, passando per la Francia. Progettato da Riccardo Morandi nei primi anni ’60, l’infrastruttura era anche il simbolo di un certo modo di costruire, tipico di un mondo che non esiste più.
“Il ponte Morandi era innovativo dal punto di vista della concezione strutturale ma quando l’innovazione è spinta molto in là può portare con sé dei rischi”. Questa è la prima riflessione da cui parte Stefano Della Torre, direttore del dipartimento di Architettura e ingegneria delle costruzioni del Politecnico di Milano, università che si è occupata recentemente proprio dello stato di salute del ponte.
LA STAGIONE DELL’OTTIMISMO
Secondo Della Torre, intervistato da Insurance Review, il ponte “era figlio di una stagione dell’ottimismo, in cui si credeva nell’indistruttibilità del calcestruzzo e del cemento armato. Nel caso specifico, in presenza di stralli unici, è chiaro che se questi cedono la costruzione non regge. Ora – aggiunge il professore del Politecnico – non si costruisce più così: oggi si costruiscono infrastrutture con elementi ridondanti che permettono di compensare l’eventuale rottura di un singolo elemento”.
Se possiamo immaginare, quindi, che la durata media di vita di un ponte costruito oggi sia ragionevolmente più lunga di quella di una struttura edificata 50 anni fa, è altrettanto vero che il ponte Morandi avrebbe potuto reggere ancora. L’infrastruttura di Genova era stata oggetto di un intervento negli anni ’90 che le aveva permesso di allungare la propria vita: attraverso una costante e buona manutenzione, solitamente, il ciclo di vita di una struttura di quel tipo può superare tranquillamente i 60-70 anni, racconta Della Torre. “La manutenzione – sottolinea – non è un costo ma un investimento, benché purtroppo molte volte sia percepita soltanto come un costo”.
UNA QUESTIONE DI TEMPO
Oggi i controlli, tra l’altro, stanno diventando sempre più tecnologici, affidati alla sensoristica, e anche più convenienti in termini di costi. Un’infrastruttura costruita in questi anni nasce già strumentata, e la digitalizzazione del progetto consente di avere un modello su cui fare simulazioni per ricavare dati e avere molto velocemente l’idea sullo stato di salute dell’opera. Anche grazie a controlli puntuali, aggiunge il professore, “era stato possibile pianificare un nuovo intervento sul ponte Morandi, dopo quello degli anni ’90. L’incidente è stato anche una questione di tempo, perché gli interventi erano progettati, anche se dichiarati non urgenti”.
ASSICURAZIONI E INFORMAZIONI
Solo che non è così semplice lavorare su quell’infrastruttura perché è la sola via di quel tipo che collegava Genova al resto del mondo: non si può chiuderla, occorrerà lavorare di notte, con costi e rischi maggiori.
Del resto, ogni opera ha il suo piano di manutenzione, che si riflette nella gestione finanziaria dell’impresa che se ne occupa. In questo ambito, rientra anche il tema della condivisione delle informazioni. Ma non tutto può essere messo nel piano di manutenzione dell’opera, perché non tutto è prevedibile. “Nel rapporto con la compagnia assicurativa – spiega Della Torre – è importante riuscire a comunicare le informazioni riguardo la prevenzione, e i modi con cui si cerca di proteggere l’opera dai rischi ragionevolmente prevedibili. Ma è impossibile ridurre il rischio a zero”.
UNA SOLUZIONE PROVVISORIA CHE DURI VENT’ANNI
Il problema di come e quando fare i lavori di ricostruzione, a questo punto, resta centrale. Ci sono diverse alternative in campo, nessuna però che realisticamente consentirà di avere un ponte nuovo in un anno, come è stato in queste settimane vagheggiato da qualcuno: “al massimo – dice il docente del Politecnico – per quella data si riuscirà a demolire i resti del ponte”. Un progetto di quella complessità richiede inevitabilmente molto più tempo. “La struttura – continua – per quanto danneggiata, può essere riparata: occorre fare un’analisi attenta dei costi e dei benefici di una opzione che consenta poi di costruire il resto con i tempi giusti. La mia impressione – conclude Della Torre – è che sia molto urgente ripristinare la viabilità e quindi trovare una soluzione che possa durare almeno una ventina di anni. Nel frattempo occorre realizzare, nel corso nel prossimo ventennio, un attraversamento che non sia più solo a una via, perché si riproporrebbero gli stessi problemi operativi per una buona manutenzione”.
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