AAA CERCASI MERCATO PER I PIR
La raccolta impetuosa dei piani individuali di risparmio potrà proseguire anche in futuro: secondo Prometeia, nei prossimi tre anni la domanda potenziale potrà attestarsi fra 34 e 88 miliardi di euro. Resta tuttavia il nodo dell’offerta: ancora poche imprese sembrano disposte a finanziarsi sul mercato, cogliendo così le opportunità del nuovo strumento finanziario
21/06/2018
Il 2017 è stato senza dubbio l’anno dei Pir. Secondo i dati forniti recentemente da Assogestioni, nel loro primo anno di attività i piani individuali di risparmio hanno raccolto nuove risorse per 10,9 miliardi di euro, trascinando probabilmente al rialzo anche un settore, quello del risparmio gestito, che ha chiuso l’annata con una performance complessiva da 97,5 miliardi di euro. Un risultato sorprendente, ben al di sopra di una stima governativa che aveva preventivamente fissato l’asticella ad appena 1,8 miliardi di euro. E che diventa ancor più eclatante se si considera che altri quattro miliardi di euro sono stati spostati da fondi pre-esistenti a nuovi fondi Pir compliant: a conti fatti, nel 2017 il patrimonio dei piani individuali di risparmio si è attestato a quota 15,8 miliardi di euro.
Parlare di successo, in questo caso, non appare affatto fuori luogo. Almeno se si guarda al solo fronte della raccolta. Già perché poi, una volta superata l’euforia di una performance da capogiro, viene naturale chiedersi che fine abbia fatto questo ingente flusso di risorse. Una domanda non banale, visto che i piani individuali di risparmio sono stati varati con un duplice obiettivo: intercettare il tesoretto delle famiglie italiane e convogliare queste risorse in quel tessuto produttivo, fatto soprattutto di piccole e medie imprese, che costituisce l’economia reale del nostro Paese. Rallegrarsi per la raccolta significherebbe soffermarsi su una sola faccia della medaglia. Ed è qui che le tinte si fanno un po’ più fosche.
EFFETTI FINANZIARI POCO REALI
Un faro, ben puntato in questa direzione, arriva dalla ricerca Pir: la finanza alternativa alla ricerca delle Pmi, realizzata da Prometeia e presentata nel corso dell’iniziativa Focus Pmi di Ls Lexjus Sinacta. Il quadro che ne emerge è quello di una realtà forse ancora in fase di assestamento, stretta fra le maglie di un settore che non sembra al momento in grado di cogliere pienamente tutte le opportunità offerte dal nuovo strumento di risparmio. A pesare è soprattutto lo scarso capitale di rischio che da sempre caratterizza le Pmi del nostro Paese. E che, nei fatti, si traduce in un più ristretto bacino di approdo per quel 21% degli investimenti in Pir che, per legge, deve essere effettuato in titoli di società non quotate al Ftse Mib. Il risultato è che i piani individuali di risparmio, più che ripercussioni concrete nell’economia reale, hanno avuto finora soltanto un effetto finanziario.
Qualcosa comunque si è smosso: sul totale degli investimenti effettuati in Pir, ben 4,5 miliardi di euro sono confluiti in imprese italiane. Non moltissimo, ma sempre di più dei 2,8 miliardi di euro che sono arrivati all’economia reale da tutti gli altri fondi comuni di diritto italiano. Resta il fatto che, tuttavia, la stragrande maggioranza delle risorse raccolte dai Pir è andata a strumenti e istituzioni che poco hanno a che fare con il tessuto produttivo delle Pmi, come società finanziarie (28,2%), titoli di Stato stranieri (12,5%) e italiani (2,9%), azioni di imprese quotate al Ftse Mib (10,7%).
FINANZIAMENTI PER L’INNOVAZIONE
Eppure la necessità di finanziamenti ci sarebbe, soprattutto per sostenere quella ricerca in innovazione e capitale tecnologico che, nella cornice dell’economia globalizzata, costituisce una leva fondamentale per garantire la competitività delle imprese. Secondo le elaborazioni di Prometeia, negli ultimi otto anni il numero di brevetti in tecnologie 4.0 è cresciuto a un tasso medio annuo del 28% a livello globale. Se gli Stati Uniti continuano a far la parte del leone, con una quota di mercato mondiale pari al 74%, a sorprendere è soprattutto la Cina: negli ultimi quattro anni il Paese del Dragone ha fatto registrare una brusca accelerazione, segnando una crescita media annua del 56,9% nel numero di brevetti registrati.
E l’Italia? Il nostro Paese si piazza in coda, al 14° posto del ranking stilato da Prometeia, dietro ai diretti competitor come Francia e Germania: a fronte di una media mondiale del 34,8%, dal 2012 al 2016 il numero di brevetti registrati in Italia è cresciuto a un tasso medio annuo del solo 22,9%. Ecco perché c’è tanto bisogno di risorse da investire in innovazione. Risorse che difficilmente, fra crisi finanziaria e addendum della Bce, potranno continuare a essere reperite fra le maglie del credito bancario. E che potranno trovare un nuovo sbocco in strumenti di finanziamento alternativi, come appunto i Pir.
UNA SETE DA 33 MILIARDI DI EURO
Le aziende interessate a nuovi canali di finanziamento non mancano. Prometeia ha deciso di focalizzare la propria attenzione sulla fascia di imprese con fatturato compreso fra 50 e 500 milioni di euro. Una scelta non casuale, visto che questo campione di aziende, secondo i dati forniti da Prometeia, si è spesso distinto in passato sul panorama produttivo nazionale: hanno una spiccata vocazione all’internazionalizzazione, puntano sull’innovazione, coprono il 42% dell’export italiano e presentano una governance mediamente migliore, con manager che spesso non fanno parte della proprietà. Investire in questo settore, pertanto, potrebbe forse portare a risultati migliori.
Prometeia ha calcolato che queste società, restringendo il campo alle sole aziende con classe di merito medio-alta, nei prossimi tre anni avranno bisogno di 33 miliardi di euro da investire in innovazione e capitale tecnologico. Considerando il vincolo d’investimento fissato al 21%, la sete di finanziamenti del settore si traduce così in un’offerta potenziale da 157 miliardi di euro per i Pir. Un traguardo lontano, forse persino impossibile da raggiungere. Ma il mercato sembra avere tutte le carte in regola per potersi almeno avvicinare all’obiettivo.
LA DOMANDA CHE SARÀ
La corsa dei Pir non è ancora arrivata al capolinea: secondo le previsioni di Prometeia, nei prossimi tre anni la domanda potenziale per i piani individuali di risparmio potrà attestarsi in un intervallo compreso fra 34 e 88 miliardi di euro. Un dato che emerge dall’analisi dell’andamento di prodotti analoghi che hanno visto la luce in passato all’estero, come gli Individual savings account del Regno Unito, i Tax free savings accounts del Canada o i Plan d’épargne en actions della Francia.
A conti fatti, pertanto, nella peggiore delle ipotesi previste da Prometeia, i Piani individuali di risparmio potranno replicare il risultato registrato nel loro primo anno di attività. Sull’estremo opposto dello spettro di possibilità, invece, i Pir potranno crescere fino a otto volte quanto realizzato nel 2017. Il che non basterà certo a soddisfare un’offerta potenziale che, come visto, si candida a sfondare il muro dei 150 miliardi di euro. Ma resta comunque un passo avanti verso la soddisfazione di quel funding gap che attanaglia le imprese italiane: fermo restando il vincolo di investimento al 21%, una domanda potenziale di 88 miliardi di euro potrebbe tradursi in un sostegno diretto alle Pmi per 18,4 miliardi di euro.
UN’ALTERNATIVA SCONOSCIUTA
A pesare, nelle previsioni di Prometeia, è anche la consapevolezza che i Pir restano tuttora un territorio pressoché inesplorato. Nonostante i piani individuali di risparmio abbiano attratto nel 2017 il 15% dei flussi investiti in risparmio gestito, i Pir restano infatti sconosciuti alla stragrande maggioranza della popolazione. Il 44,8% degli italiani afferma di essere del tutto all’oscuro della novità. Non va meglio fra gli investitori, con il 42,5% che afferma di non conoscere il prodotto. Numeri che si riflettono anche sulla quota di possessori, che resta minoritaria rispetto alla popolazione generale: 1,4%, contro l’8% dei Pea in Francia e il 5% degli Isa nel Regno Unito.
La richiesta potenziale, tuttavia, non manca. Il 4,3% della popolazione generale si dice interessato ad attivare lo strumento nei prossimi dodici mesi, così come 6,7% degli investitori. Meglio ancora fra le fasce ad alto reddito: il 12% degli investitori con reddito superiore a 100mila euro ha mostrato interesse per la novità. Poste queste basi, una maggior conoscenza dello strumento avrebbe un effetto quasi scontato: incrementare ulteriormente la domanda potenziale di Pir.
LA SFIDA DEL SETTORE
Resta tuttavia una domanda: questa ingente richiesta potenziale riuscirà mai a scaricarsi a terra? La risposta non è scontata. E si lega al già citato scarso capitale di rischio delle imprese italiane. Il fenomeno dei Pir non ha finora spinto al rialzo le quotazioni: al Ftse Mib, il listino principale di Piazza Affari, nel 2017 si sono contate otto ipo, sostanzialmente in linea con quanto registrato negli anni precedenti. Maggior euforia si è registrata all’Aim Italia, il listino dedicato alle piccole e medie imprese, dove nell’ultimo semestre dello scorso anno si sono avuti 16 nuovi ingressi. Bicchiere pieno tuttavia solo a metà, visto che spesso le quotazioni sono avvenute tramite Spac, ossia veicoli finanziari senza alcuna attività operativa propria, che raccolgono fondi con l’obiettivo di selezionare e portare in Borsa società esistenti.
Tornando all’esempio fatto da Prometeia, la società di consulenza stima che per soddisfare quell’offerta potenziale da 157 miliardi di euro sarebbe necessario che almeno un’impresa su due fosse disponibile a finanziarsi sul mercato. Ossia, detto in altri termini, che si quotasse o emettesse titoli di debito. Ed è qui che, secondo Prometeia, sta la vera sfida del settore: convincere sempre più imprese a cercare risorse sul mercato, rompendo quel bancocentrismo atavico che da sempre caratterizza il nostro sistema produttivo. Solo così sarà possibile per i Pir riuscire a esprimere il proprio reale potenziale.
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