IL MERCATO DEI BENEFIT
Sempre più diffuso il fenomeno delle prestazioni sociali destinate ai dipendenti: domanda e offerta in crescita, anche sulla scia dei cambiamenti innescati dalla pandemia di coronavirus. Il settore assume ormai dimensioni di tutto rilievo e si candida ad accompagnare l’evoluzione del mercato del lavoro
13/05/2022
Il 2022 del welfare aziendale si è aperto con una brusca battuta di arresto. Anzi, con un vero e proprio passo indietro: il legislatore ha infatti riportato a 258,23 euro all’anno la soglia di esenzione fiscale prevista per i cosiddetti fringe benefit, ossia prestazioni in natura che possono essere elargite ai dipendenti a integrazione della normale busta paga.
La soglia era stata raddoppiata e portata a 516,46 euro all’anno con il decreto legge n. 104/2020, conosciuto anche come decreto Agosto, e confermata per tutto il 2021 con il successivo decreto Sostegni. Lo stop ha colto un po’ tutti di sorpresa. Innanzitutto perché, nel corso dei vari dibattiti parlamentari, erano stati presentati vari emendamenti volti a prolungare ulteriormente la misura o, in alcuni casi, a renderla addirittura strutturale: nessuno di questi ha però trovato spazio nella legge di Bilancio 2022 e nel successivo decreto Milleproroghe. E poi perché, secondo alcune stime, l’iniziativa avrebbe potuto dare risultati concreti a fronte di costi piuttosto contenuti. The European House – Ambrosetti, a tal proposito, ha calcolato che il mantenimento della soglia di esenzione fiscale a 516,46 euro avrebbe potuto generare consumi aggiuntivi fino a un massimo di 4,1 miliardi di euro all’anno, cosa che si sarebbe poi tradotta in un maggior introito per le casse statali, tramite l’Iva, di oltre 500 milioni di euro. Nel 2020 la Ragioneria Generale dello Stato aveva stimato gli oneri a carico dello Stato per il raddoppio della soglia di esenzione fiscale in appena 12,2 milioni di euro, addirittura in soli 1,1 milioni di euro per l’anno successivo.
LE CRITICHE DEL MERCATO
La scelta del legislatore ha dunque lasciato molti perplessi. Aiwa, l’associazione italiana per il welfare aziendale, è arrivata a definire “una mancanza stupefacente” la bocciatura degli emendamenti che avrebbero almeno prolungato il raddoppio della soglia di esenzione fiscale.
L’associazione, per bocca del suo presidente Emmanuele Massagli, non ha tardato a parlare di una “miopia” di cui il mercato non riesce ancora a darsi ragione. Secondo Aiwa, sono infatti “centinaia di migliaia le aziende che già avevano impostato il piano di welfare per il 2022, contando sulla conferma della soglia a 516 euro promessa dal legislatore”. Il risultato, prosegue la nota dell’associazione, è che “un doveroso e assai tardivo adattamento della soglia dell’art. 51 c. 3 all’aumentato costo della vita oltre 35 anni (trentacinque!) dopo la sua definizione, viene trattato dalla politica come un banale bonus, una delle tante elargizioni di dubbia lungimiranza che sono state approvate in questi turbolenti anni di pandemia”. La disposizione giuridica a cui fa riferimento il comunicato stampa è l’articolo del Testo unico delle imposte sui redditi che fissa la soglia di esenzione fiscale per i fringe benefit a 258,23 euro all’anno. Anzi, per essere fedeli al testo della legge, a “lire 500.000”. Già, perché da allora il testo non è stato toccato, superando decenni di inflazione e persino un cambio di valuta.
L’EVOLUZIONE NORMATIVA
Lo stop ha fatto molto rumore perché era stato proprio il legislatore ha dare un impulso decisivo allo sviluppo del welfare aziendale in Italia. La strada era stata aperta dalla legge di Stabilità 2016 ed era stata ulteriormente ampliata negli anni successivi. Il risultato era stato (ed è tuttora) un regime di agevolazione fiscale che punta in questo modo a incentivare e promuovere il ricorso a strumenti di welfare aziendale.
Nel dettaglio, la disciplina introdotta alla fine del 2015 prevedeva una tassazione agevolata sui premi di risultato con l’introduzione di un’imposta sostitutiva del 10% e una completa detassazione dei bonus convertiti in benefit per tutti i dipendenti con un reddito inferiore a 50mila euro all’anno. Negli anni successivi, come già accennato, si era avuta un’ulteriore accelerazione: erano stati ampliati i limiti di importo per accedere all’agevolazione fiscale, erano state rimosse le soglie previste per la detassazione dei contributi destinati a fondi di sanità integrativa o previdenza complementare ed era stata infine ampliata la platea dei potenziali beneficiari a tutti i dipendenti che dispongono di un reddito non superiore agli 80mila euro all’anno. Nel 2018 si era verificata la prima battuta di arresto: dopo anni di intensa produzione legislativa, non era stata infatti varata alcuna iniziativa di rilievo in materia di welfare aziendale. Il più, però, era già stato fatto.
LE DIMENSIONI DEL SETTORE
Sì, perché il mercato del welfare aziendale ha avuto una crescita vertiginosa. E ha rapidamente raggiunto dimensioni di tutto rilievo. Secondo il censimento permanente dell’Istat sulle strategie adottate dalle imprese per il benessere lavorativo e l’interesse collettivo, nel 2018 (ultima data disponibile) oltre 712mila aziende italiane (68,9%) hanno dichiarato di “essere impegnate in azioni volte a migliorare il benessere lavorativo del proprio personale”. Per il 68,6% delle imprese ciò si è tradotto in misure per promuovere la flessibilità dell’orario lavorativo, per il 65,5% nell’introduzione di buone prassi per lo sviluppo professionale, per il 61,9% in iniziative per la tutela delle pari opportunità e per il 59,4%, infine, in programmi per coinvolgere i dipendenti nella definizione degli obiettivi aziendali.
I dati si riferiscono al 2018, ossia al momento di massima produzione legislativa in materia di welfare aziendale. L’interesse delle imprese non è però mutato. A metà aprile, secondo l’ultimo aggiornamento del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, si contavano in Italia oltre 7.500 contratti di secondo livello e, di questi, ben 4.434 accordi (58,5%) prevedevano misure di welfare aziendale. La platea dei beneficiari era composta da oltre 1,5 milioni di lavoratori, mentre l’importo medio annuo erogato ai dipendenti si attestava a poco più di 1.600 euro.
LE OPPORTUNITÀ PER LE ASSICURAZIONI
La domanda di mercato, dunque, non manca. E negli ultimi anni si è sviluppata rapidamente anche una vivace offerta di prodotti e servizi, in cui i professionisti delle polizze ricoprono un ruolo di primo piano. L’ultima edizione del rapporto curato da Altis – Università Cattolica del Sacro Cuore, pubblicata lo scorso novembre, contava complessivamente 104 provider di servizi di welfare aziendale, fra cui anche otto compagnie e altre otto società di brokeraggio: calcolatrice alla mano, fa una quota di mercato del 15,4% in mano ai professionisti delle polizze.
Gli esempi possibili, in questo ambito, sono tanti. Uno particolarmente emblematico è quello di Generali Italia, che nel 2017 è arrivata a costituire Generali Welion, una realtà completamente dedicata al welfare e, di conseguenza, anche all’offerta di benefit aziendali. La società si è fatta rapidamente conoscere sul mercato, anche grazie all’iniziativa Welfare Index Pmi, progetto di ricerca che si propone di analizzare ogni anno l’evoluzione del welfare aziendale in Italia e di premiare le best practice del settore. L’ultimo aggiornamento, presentato lo scorso settembre, ha evidenziato che le imprese molto attive in questo ambito sono più che raddoppiate nel giro di sei anni, arrivando a coprire il 21% del totale. Il 57% delle imprese ha dichiarato di essere attivo nell’ambito della previdenza e della protezione, un altro 51% in quello della salute e dell’assistenza.
LA SPINTA DEL CORONAVIRUS
Un’altra spinta decisiva è poi arrivata dal coronavirus. Il rapporto di Generali Welion, a tal proposito, evidenzia che le imprese hanno lanciato numerose iniziative per affrontare l’emergenza sanitaria: il 44,8% ha offerto servizi diagnostici per il Covid-19, il 39% ha istituito nuove attività di formazione a distanza, il 38% ha concesso bonus e temporanei aumenti della retribuzione, il 36% ha garantito una maggiore flessibilità oraria e il 25,7% ha siglato nuove assicurazioni sanitarie. Nel 43% dei casi, secondo i risultati dell’indagine, si tratta di iniziative che resteranno anche quando l’emergenza sanitaria sarà definitivamente superata.
Una conferma in questa direzione arriva dall’ultima edizione dell’Osservatorio Welfare di Edenred Italia, secondo cui il 2020 è stato “un banco di prova cruciale delle misure di flexible benefit”. E la prova appare ampiamente superata: nell’anno del coronavirus, stando alla ricerca, il settore ha infatti “confermato la bontà delle soluzioni di welfare aziendale”. Parole analoghe anche nel rapporto Welfare for People di Adapt e Intesa Sanpaolo, secondo cui il fenomeno del welfare aziendale ha dato prova di poter rappresentare “una leva per le imprese per rispondere alle complesse sfide in atto, non soltanto costituite dalle immediate conseguenze della crisi epidemiologica, ma anche da un impatto psicologico sui lavoratori che li conduce a riconsiderare le loro condizioni lavorative e le loro motivazioni al lavoro, fino alla scelta, a volte, di lasciare il loro lavoro”.
LE RICHIESTE DELLE IMPRESE
Quello delle dimissioni è un tema di stretta attualità. Negli Stati Uniti si è arrivati persino a coniare la locuzione Great Resignation per descrivere l’inaspettato fenomeno delle dimissioni di massa che si è verificato nell’estate del 2021. Alla base della tendenza, secondo la letteratura accademica, c’è soprattutto il desiderio di retribuzioni più alte e di migliori condizioni di lavoro. E chissà che un giorno una situazione del genere non possa verificarsi anche in Italia.
L’ultimo rapporto di Censis ed Eudaimon è piuttosto cauto su questo punto: il 56,2% degli occupati, a tal proposito, non si è detto propenso a lasciare il proprio posto di lavoro. Eppure, nonostante tutto, nei primi nove mesi del 2021 si sono registrate oltre 1,3 milioni di dimissioni volontarie. E l’82,3% dei lavoratori si dice insoddisfatto della propria occupazione. Per questo sempre più imprese si dicono attente al benessere dei propri dipendenti. In questo contesto, il welfare aziendale può ricoprire un ruolo importante. Del resto, l’86,5% dei lavoratori chiede più servizi nella sanità e nell’assistenza dei figli, un altro 75,2% un maggior supporto nel soddisfacimento dei propri bisogni sociali. In pratica, più welfare aziendale. I responsabili aziendali si sono detti aperti a questa possibilità. E lo sarebbero molto di più se ricevessero qualche sostegno dalle istituzioni pubbliche. Il 93,8%, a tal proposito, ha chiesto maggiori benefici fiscali. Praticamente tutto il contrario di quello che è stato fatto con i fringe benefit.
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