QUOTE ROSA: SERVE L’OBBLIGO PER LE COMPAGNIE?
L’esperienza del settore finanziario dimostra che l’introduzione di un livello progressivo di componenti del genere meno rappresentato nei consigli di amministrazione favorisce una governance innovativa e più efficace, fino al raggiungimento di risultati migliori per gli stakeholder. Per centrare questo obiettivo, come evidenzia uno studio condotto da Ivass, è stata utile una normativa specifica, assente nel settore assicurativo che infatti si mostra ancorato a vecchi modelli
14/03/2022
Secondo Edmondo De Amicis, l’uomo che pratica una sola classe sociale è come lo studioso che non legge altro che un libro. Una metafora efficace per dire, più esplicitamente, che allargare i propri orizzonti consente di aumentare la conoscenza e di avere quindi più strumenti per affrontare un problema e per trovare nuove soluzioni.
La ragione per cui è utile considerare e dare valore alle diversità può essere quindi, molto concretamente, la volontà di allargare i propri punti di vista alla ricerca di nuove e più efficaci soluzioni. Lungi da un’adesione ideologica o di facciata, valutare approcci diversi ha il valore prosaico di supportare il pensiero laterale nel momento di disegnare una strategia, elaborare un progetto, prendere decisioni.
La diversità (di genere, ma non solo) è una tematica all’ordine del giorno nelle imprese orientate a obiettivi di sostenibilità, ma il raggiungimento di un traguardo concreto pare essere un percorso molto accidentato.
Un’analisi ragionata della questione gender diversity nel settore assicurativo italiano è l’oggetto del Quaderno n.22 pubblicato da Ivass lo scorso mese di gennaio. Lo studio, intitolato Donne, board e imprese di assicurazione e firmato da Diana Capone, Sara Butera, Flaminia Montemaggiori, si basa su un’approfondita analisi qualitativa delle previsioni legislative e di soft law in tema di parità di genere, e quantitativa per misurare la concreta realtà della presenza femminile nei board delle imprese di assicurazione.
Secondo le autrici, la troppo lenta progressione con cui si concretizza la parità di genere all’interno delle organizzazioni del settore assicurativo non è una precisa volontà quanto piuttosto il reiterarsi di schemi consolidati che auto-realizzano scenari conservativi.
Con simili presupporti, osservati e misurati, un’attività normativa e regolatoria che imponga un orientamento alla parità di genere avrebbe lo scopo di “dare una spintarella” al cambiamento. Lo dimostrano gli esiti dell’introduzione delle quote rose nel settore finanziario, che molti punti di contatto ha con il mondo assicurativo.
PIÙ DONNE SOLO NELLE IMPRESE QUOTATE
Lo studio fonda i presupposti concreti su un’analisi quantitativa della presenza femminile ai vertici delle compagnie assicurative che operano in Italia, realizzata grazie alle informazioni desumibili dagli archivi dell’Ivass. Sono state prese in considerazione le composizioni dei board aziendali alle date del 31 dicembre 2015 e 2019 (periodo corrispondente a un ciclo di rinnovi completo), un contesto ancora non influenzato dalla pandemia ma già sensibile alle tematiche della rappresentanza delle diversità di genere.
L’analisi ha riguardato la totalità delle compagnie attive sul territorio nazionale nelle due date, e precisamente 122 per il 2015 (di cui 5 quotate) e 108 per il 2019 (4 le quotate).
All’interno dei board, sostanzialmente invariati nel numero dei componenti durante il periodo in analisi, la percentuale di membri di genere femminile era del 10% nel 2015 e del 17% nel 2019, con un incremento quindi di 7 punti. La differenza è sensibile anche nella distribuzione: nel 2015 oltre la metà dei consigli di amministrazione era composta solo da uomini, una quota scesa a circa un terzo del totale nel 2019. I board con una quota di presenze femminili pari o superiore al 33% era dell’8% nel 2015 e del 18% nel 2019, dati che includono comunque le società quotate, obbligate dalla norma a questo limite minimo.
In termini di cariche, le donne consigliere erano il 13% nel 2015 e il 21% nel 2019, ma lo studio ha valutato anche la presenza femminile nei ruoli di presidente, direttore generale e amministratore delegato. La percentuale di presidenti donna è pari al 5% in entrambe le rilevazioni, nel ruolo di amministratore delegato la presenza femminile è cresciuta dal 5% del 2015 al 7% del 2019, al contrario nella carica di direttore generale le donne sono passate dal 9% al 7% del 2019.
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NON SI INCIDE IL SOFFITTO DI CRISTALLO
Limitando la rilevazione alle imprese assicurative quotate, e quindi soggette secondo la legge Golfo – Mosca, nel periodo osservato, alla soglia obbligatoria del 33% di presenze del genere meno rappresentato, la quota femminile nei consigli è stata del 27% nel 2015 e del 36% nel 2019. Al contrario, nelle imprese non quotate il livello della presenza femminile, pur cresciuto, è ancora molto limitato, indice del fatto che la sola sensibilità sociale non è motore sufficiente al cambiamento e che quindi diventa necessario un intervento a sostegno, come dimostrato dai numeri delle imprese quotate.
Le autrici notano, comunque, che nel corso dei periodi osservati nessuna donna è stata nominata nei ruoli apicali dei board nelle imprese quotate, al contrario, in quelle non soggette a obblighi normativi la presenza di cariche apicali al femminile è più apprezzabile, per quanto comunque ridotta.
L’impressione che conferma la presenza di un “soffitto di cristallo” non superabile per le donne è suffragata dal fatto che i numeri complessivi della presenza femminile nelle compagnie non giustificano un calo in percentuale a mano a mano che si passa ai livelli di carriera superiori.
Il freno alla carriera femminile, le cui ragioni sono di varia natura, può essere uno dei motivi che limita la presenza di donne nei cda. La presenza di figure femminili è già ridotta a livello di responsabili di unità organizzative che generano profitti, un’esperienza che rientra spesso tra i requisiti di chi è scelto per guidare l’impresa. Questo aspetto giustificherebbe anche il fatto che nel periodo analizzato le donne presenti nei cda (a eccezione di un singolo caso) hanno sviluppato la propria carriera professionale esternamente alla compagnia, spesso in ruoli accademici o di consulenza, al contrario del 26% dei loro colleghi di board, che proviene dalla carriera interna.
Un altro dato che caratterizza le consigliere è la formazione universitaria: il 93% ha una laurea in materie attinenti alle attività basilari del settore assicurativo (economico-finanziarie, giuridiche, statistico-attuariali) contro il 68% dei colleghi maschi.
CAMBIARE PER AVERE UNA NUOVA VISIONE
Se le cose stanno così, e la cultura sociale sta portando a una lenta e naturale evoluzione, perché serve forzare il cambiamento? La ragione sta nel valore stesso della differenza, che dovrebbe essere interesse delle compagnie perseguire per la propria crescita.
L’opinione unica è però un sentiero sicuro, facile da percorrere: le scelte che ne derivano saranno frutto di selezione sulla base di approcci consolidati, e per questo autodefiniti vincenti.
A supporto della teoria della necessità di favorire una presenza di generi bilanciata, le autrici dello studio riportano quanto affermato dalla letteratura, frutto di analisi sull’efficacia dei board di imprese di assicurazione italiane ed estere, secondo cui “un miglior bilanciamento della composizione dei consigli di amministrazione, anche in termini di genere, rappresenta uno strumento per rafforzare i meccanismi di governo societario, poiché favorisce una migliore dialettica, più efficaci meccanismi di check and balance e una più intensa azione di monitoring”, oltre a rendere più forte la governance interna e aumentare i risultati delle società in termini di valore per gli azionisti e per il sistema in generale. I risultati diventano tangibili però solo se l’equilibrio di genere è effettivamente ricercato quale strumento di cambiamento, e si accompagna pertanto a una condivisa politica di apertura: perché questo avvenga, è necessario che la presenza del genere meno rappresentato non corrisponda alla quota minima imposta per legge o “socialmente accettabile”, quanto invece equivalga al raggiungimento di una massa critica che abbia peso nelle dinamiche decisionali.
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SERVE UNA LEGGE PER LE QUOTE DI GENERE?
A novembre 2021 lo Iais (International Association of Insurance Supervisors) ha emanato un pronunciamento sul tema della diversità, sottolineando l’impatto positivo sugli obiettivi di supervisione in relazione a tre dimensioni: il miglioramento della corporate governance e del risk management, la spinta innovativa verso i bisogni dei consumatori e l’impatto positivo sugli obiettivi Esg. Diversamente da quanto avviene nel settore bancario, la normativa europea non tratta in maniera esplicita il tema dell’inclusione quale valore per le compagnie assicurative, tanto che esso non è previsto né nel nuovo framework di Solvency II né nell’opinion fornita su di esso da Eiopa. Inoltre, a differenza di quanto fa Eba per le banche e le imprese di investimento, né Eiopa né Ivass in Italia hanno dedicato analisi alla valutazione dei livelli di presenza femminile nei board.
Il riconoscimento normativo delle quote di genere ha invece portato la Banca d’Italia ad agire per riequilibrare la composizione degli organi di supervisione strategica e di controllo nelle banche non quotate, con l’aggiornamento nel 2021 della Circolare n. 285/2013: la quota di genere del 33% in queste funzioni pare, all’analisi degli impatti, poter essere considerata ottimale per migliorare il confronto interno e poter incidere realmente nei processi decisionali. L’obbligo del raggiungimento di tale livello diventa per la Banca d’Italia anche uno strumento per favorire il ricambio degli amministratori, specialmente nelle realtà più piccole dove la durata delle cariche rappresenta un vincolo a dinamiche di ricambio e innovazione.
A livello di legislazione, attualmente in Italia l’attenzione è posta solo sulle imprese quotate o non quotate ma controllate dalla pubblica amministrazione. Per questi casi, come si è visto limitati a poche unità nel settore assicurativo, il riferimento è la legge 120/2011 Golfo-Mosca, in base alla quale nei rinnovi societari successivi a gennaio 2020 il genere meno rappresentato deve vedersi garantito almeno il 40% dei componenti, una norma che trova riflesso nell’adesione volontaria al Codice di Corporate Governance anche in tema di diversità nella composizione degli organi societari.
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