LO STATO DELLE PENSIONI
Debito pubblico e debito pensionistico sono due facce della stessa medaglia, e l’impatto della pandemia di Covid-19 si riverbererà anche sul settore della previdenza. Mai come oggi il secondo e terzo pilastro dovrebbero essere incentivati da politiche coerenti, ma anche da una migliore cultura del rischio
09/12/2020
Il 17% del Pil italiano è rappresentato dalla spesa per la previdenza. L’Italia, sotto questo aspetto, surclassa la media europea di quattro punti percentuali (13%). In sé, sottolineano gli esperti e gli addetti ai lavori, non sarebbe un male. Il problema è che, come noto, una percentuale troppo elevata di spesa pensionistica rischia, ed è proprio il caso dell’Italia, di lasciare alle altre voci che compongono il bilancio del welfare pubblico risorse limitate, per non dire insufficienti. Questione demografica, crescita asfittica, disoccupazione giovanile rappresentano gli storici malanni italiani che non permettono di guardare con serenità alle pensioni del futuro.
C’è, e non da oggi, un evidente tema di sostenibilità pensionistica che si lega, mai come in questo periodo, a quello della sanità: la sostenibilità del sistema è messa a dura prava dal sovraccarico degli ospedali, ma anche dai tanti anziani soli, che spesso sono invisibili e senza assistenza. Un vero vulnus del nostro Stato sociale.
Maria Bianca Farina, presidente di Ania
UN RISCHIO CONCRETO
Secondo Roberto Parazzini, chairman e ceo di Deutsche Bank in Italia, “la politica può aiutare a rinvigorire il progetto della previdenza complementare, ma occorre in primis accelerare l’educazione finanziaria e aumentare la sensibilità al rischio”. Certamente un bel programma, ricco di buoni auspici, quello del numero uno dell’istituto tedesco in Italia, ma che si scontra con una palese difficoltà di manovra che, se già era tale prima del Covid, oggi è persino un po’ giustificata.
Durante l’evento, Gli Stati generali delle pensioni – Covid shock, debito pensionistico e debito pubblico, organizzato proprio Deutsche Bank e da Università Bocconi, è emerso quanto saranno pesanti le implicazioni di medio-lungo periodo della pandemia di Covid-19 sul sistema delle pensioni pubbliche e private, e l’impatto generale sul modello fiscale e il debito pubblico italiani.
MIX LETALE: VIRUS-DECRESCITA-DISEGUAGLIANZE
Debito pubblico e debito pensionistico sono due facce della stessa medaglia, anche se non è corretto sovrapporle. Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha precisato che l’impatto del Covid sul debito pubblico sarà effettivamente notevole ma che per una stima più accurata bisognerà attendere. E non è qualcosa che riguarda solo l’Italia: “il rapporto debito/Pil è aumentato ovunque – ha spiegato Visco – e l’aumento della disoccupazione si rifletterà in minori entrate e maggiori erogazioni di prestazioni previdenziali”.
Ampliando lo sguardo alle dinamiche più generali e profonde che impattano sui sistemi previdenziali, in Europa il tasso di fecondità è in lieve crescita nonostante la dinamica demografica sia un problema, e in più le pandemie, come le recessioni, abbattono proprio questo indicatore; tuttavia anche la longevità potrà avere una flessione, per effetto del contraccolpo sociale del mix virus, decrescita economica, aumento delle diseguaglianze. “In dieci anni – ha detto il governatore – il debito italiano potrebbe tornare ai livelli pre-Covid solo con una crescita media annua del +1,5%, ma contemporaneamente servirebbe più occupazione: nello stesso periodo, invece, perderemo tre milioni di occupati. La ricetta per invertire la rotta è l’aumento produttività e il rilancio di scuola e ricerca”, ha concluso Visco.
CI SONO ALTERNATIVE AL DEBITO?
A fine 2020 i Paesi Ocse avranno un rapporto medio debito/Pil all’80%, ma a tassi bassissimi, quasi negativi. Il dato non è indifferente, ha ricordato Davide Iacovoni, dirigente generale del ministero dell’Economia e delle Finanze, giacché la stima per l’Italia ci porta al 158%. Nei mesi della pandemia c’è stato un “incremento poderoso della provvista”: da gennaio a ottobre lo Stato ha emesso tra il 40% e 50% di debito in più, cioè un incremento tra i 110 e i 120 miliardi. L’Italia nei prossimi tre anni dovrà restituire il 35% del debito contratto in questo periodo e l’avanzo primario rimarrà negativo fino al 2023.
Con la legge di bilancio che il governo sta per presentare, il conto che si pagherà sul debito pubblico sarà ancora una volta salato. Ma c’è un’alternativa?
Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia
CON I BONUS CI SI CAMPA
Con un aumento dei decessi pari al 13% solo tra marzo e aprile, una disoccupazione che rischiava di esplodere (nonostante il blocco dei licenziamenti, circa 530mila persone non hanno più un lavoro) e con certe categorie la cui perdita salariale è stata del 40%, secondo Pasquale Tridico, presidente dell’Inps, “alla pandemia e alla crisi economica occorreva dare risposte nell’immediato”. L’istituto di previdenza ha gestito 30 miliardi di euro di risorse aggiuntive, arrivate in poche settimane dal governo per circa 14 milioni di persone; quattro milioni di beneficiari di qualche bonus; una cassa integrazione per sei milioni di lavoratori con un picco storico tra marzo e settembre a oltre tre miliardi di ore di cassa.
L’utilizzo dei bonus è da sempre criticato, eppure Tridico è convinto che nella situazione italiana sarebbe difficile fare altrimenti: “il welfare – ha spiegato – è troppo frammentario e non riesce a coprire bene tutti i lavoratori. Ecco perché abbiamo creato bonus per 12 categorie di lavoratori diverse. Queste misure hanno permesso una riduzione della perdita di reddito per le famiglie pari al 55%. Abbiamo contrastato bene la povertà”.
DALL’ASSISTENZIALISMO ALL’UGUAGLIANZA
Occorre quindi un ripensamento profondo della composizione della spesa pubblica, oggi concentrata troppo sulle pensioni, come ha ribadito anche l’ex ministra Elsa Fornero, docente di Economia politica all’Università degli Studi di Torino. In Italia sono poco più di 8.000 euro pro capite le risorse destinate alla spesa sociale, il 50% per pensioni, il 23% per la salute contro una media europea del 30%. “La spesa pensionistica – ha sottolineato Fornero – è stata utilizzata come ammortizzatore sociale, come strumento di politica industriale nei pre-pensionamenti, come una forma comoda di assistenzialismo, e anche come strumento di consenso sociale”.
Mandare in pensione persone non vuol dire far entrare nuovi lavoratori: “la logica della sostituzione non è efficace – ha detto – quanto quella di creare un mercato del lavoro inclusivo”.
Secondo l’ex ministro, il welfare va impostato sull’uguaglianza delle opportunità attraverso un misto di finanziamento tra pubblico, privato e debito per i rischi macroeconomici; occorre uno spostamento di risorse verso l’educazione e la formazione. Ben vengano quindi i soldi del Mes per gli investimenti in sanità, ma è essenziale anche “incoraggiare la collaborazione pubblico/privato su pensioni e assistenza a lungo termine”.
ANIA, UN WELFARE INTEGRATO PER CITTADINI INFORMATI
Un programma, questo, in sintonia con il settore assicurativo, come più volte ribadito da Maria Bianca Farina, la presidente di Ania. Farina ha sottolineato quanto il comparto dei rischi sia centrale e protagonista nel sistema pensionistico: “le compagnie – ha detto – sono il principale operatore, gestiscono la metà dei 180 miliardi di euro affidati alla previdenza; più di 3,6 milioni iscritti ai Pip, pari al 44% del totale degli iscritti alla previdenza complementare”.
Ma ha anche chiesto di aumentare gli sforzi pubblici nell’incentivare la cultura del rischio. Male, in questo senso, non aver più ripetuto l’invio della Busta arancione: “occorrerebbe invece – ha sottolineato – un portale italiano dedicato alla situazione pensionistica del cittadino, che aiuti così le persone a restare informate e scegliere consapevolmente cosa fare”. Il modello ideale, secondo Ania, prevede l’integrazione delle esigenze della terza e quarta età: reddito, quindi, ma anche cure e assistenza. “È utile, pertanto – ha continuato la presidente –, pensare a un’offerta integrata di coperture. È un obiettivo che si deve raggiungere: è assurdo che solo il 23% dei possibili fruitori di previdenza complementare sia iscritto. In quest’ottica – ha concluso – vorremo che venisse dato più spazio all’educazione finanziaria e alla cultura del rischio”.
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