LE INSURTECH SONO GLI INCUMBENT
Sulla scena assicurativa globale il fenomeno delle start up innovative ha conosciuto una fase darwiniana: negli ultimi due anni sono calati gli investimenti, molte realtà hanno chiuso i battenti, altre hanno significativamente ridimensionato la propria portata disruptive. A mostrare una certa vivacità sono state invece molte compagnie tradizionali che, attraverso modalità evolute di utilizzo della tecnologia, stanno aprendo nuove strade nell’underwriting, nella loss prevention e nell’engagement degli utenti, come spiega Matteo Carbone, fondatore e direttore dell’IoT Insurance Observatory
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20/02/2025
👤Autore:
Beniamino Musto
Review numero: 121
Pagina: 46-48
☁Fonte immagine: choochart choochaikupt - iStock
Lo storytelling che vede nella carica di innovazione portata dalle start up il principale veicolo di disruption nel settore assicurativo ha esaurito la sua forza. Le insurtech hanno vissuto negli ultimi due anni una fase darwiniana in cui sono sopravvissuti i più forti, i player che si sono meglio adattati ai cambiamenti degli scenari macroeconomici, anche sposando approcci tradizionali. È questo uno dei primi elementi che emergono dalla fotografia sullo stato dell’arte sul fronte dell’innovazione in assicurazione che ci fornisce Matteo Carbone, fondatore e direttore dell’IoT Insurance Observatory.
“Il 2024 – spiega a Insurance Review – a livello di investimenti allocati sulle start up del mondo insurtech è stato un anno non particolarmente positivo e ricco. Abbiamo visto dei volumi che sono stati in contrazione rispetto agli anni precedenti, e addirittura inferiori persino a quelli del 2019”. C’è quindi stata molta prudenza da parte degli investitori nel finanziare nuove iniziative o nel fare follow up su iniziative esistenti. C’è stato anche “qualche naturale e sano fallimento che fa parte del processo di maturazione del settore: teniamo conto – osserva Carbone – che stiamo parlando di un settore che ha un decennio di storia, e durante un percorso di innovazione è naturale che, a fronte di iniziative che raggiungono una certa stabilità, ve ne siano altre a cui manca la sostenibilità del business, e quindi il castello di carte a un certo punto cade. Abbiamo l’esempio di wefox, player europeo con una presenza importante in Italia, che pezzo a pezzo viene venduto, e il cui modello di business ha mostrato un po’ tutte le crepe che si intravedevano già qualche anno fa”.
UNICORNI COL FIATO CORTO
Nel mercato Usa, di cui Carbone è un profondo conoscitore, è interessante osservare ciò che è accaduto a due player iconici come Root e Lemonade che avevano caratterizzato la prima ondata dell’insurtech, arrivando a quotarsi in Borsa.
Root, nel periodo successivo al Covid, ha messo in atto una grossa pulizia di portafoglio, riducendo il numero di polizze in modo significativo, e alzando il premio medio: “nulla di particolarmente nuovo rispetto all’esperienza storica dell’assicurazione. È stato applicato il buon senso – dice Carbone – con metodologie ben conosciute che hanno sostanzialmente salvato la compagnia”. Questo si è innestato in un ciclo del mercato americano particolare, reduce da due anni di forte inflazione, in cui in molti Stati i regolatori hanno ostacolato le grosse compagnie nella generale corsa al repricing delle polizze portandole a limitare il business che erano disposte a sottoscrivere. Root è riuscita a muoversi in maniera agile: “ha avuto alcuni trimestri in cui a fronte di rincari delle tariffe sostanziali, anche fino al 50-60% nel giro di un anno, è riuscita a riportare il proprio portafoglio a 400mila polizze, e ha recuperato in termini di valutazione, tornando a valere sopra al miliardo di dollari”, racconta Carbone.
Per quanto riguarda Lemonade, la società non ha mai avuto il rischio di finire il cash, ma ha avuto una serie di trimestri con risultati deludenti; “negli ultimi tempi si è ripresa e anche la valutazione è ritornata a essere quella dei tempi dell’Ipo, sebbene molto lontana dai massimi raggiunti l’anno successivo all’Ipo stessa”. Ma Lemonade è anche l’emblema di un certo tipo di storytelling sull’insurtech, e su questo punto Carbone è molto chiaro: “non c’è più un modello Lemonade. Se si vanno a guardare le aree in cui Lemonade utilizzava approcci innovativi, non troviamo nulla di differente rispetto a quello che viene fatto da una buona compagnia tradizionale evoluta”. Dopo aver bruciato 2,5 miliardi di dollari di cassa e aver assunto molti executives assicurativi, Lemonade ha risolto molti dei problemi che aveva; la società “ha certamente delle prospettive di crescita per diventare un player sostenibile del mercato, ma – sottolinea Carbone – possiamo affermare che la narrazione sul suo ruolo come disruptor è stata fortemente esagerata”.
Si accennava agli incumbent. Le compagnie tradizionali hanno mostrato invece una certa vitalità: “sono state molto più pronte di quello che il mercato si aspettava ad abbracciare l’innovazione”, afferma Carbone, il quale cita come esempio l’americana Progressive, “uno dei casi di successo più clamorosi a livello internazionale, un player che investe in innovazione un paio di miliardi di dollari all’anno, costantemente nella top ten delle compagnie mondiali in termini di total shareholder return. Progressive nel corso degli ultimi due decenni ha costruito una capacità di utilizzare la telematica in ottica di pricing sophistication che gli consente di avere un loss ratio sul prodotto auto migliore del 20% rispetto a tutto il resto del mercato. È un incumbent che ha dimostrato una capacità maggiore rispetto a quella di tutta la wave di nuovi player nell’utilizzo e nell’implementazione sul business assicurativo dei dati e delle nuove tecnologie”.
L’AI PER SVILUPPARE MODELLI DINAMICI
In tema di tecnologie oggi è l’impiego dell’intelligenza artificiale a caratterizzare lo storytelling del settore. “L’AI – commenta Carbone – è già da molto tempo una componente importante di qualunque compagnia un minimo avanzata, basti pensare all’ambito antifrode. Cosa diversa è la narrazione di processi totalmente appannaggio dell’AI, dove tutto è delegato alla macchina: questo però è uno scenario di fantascienza. Tecnicamente potrebbe anche essere realizzabile, ma non è applicabile ad ambiti molto complessi e regolamentati come quello assicurativo”.
Per spiegare quali sono i nuovi fronti reali di impiego dell’AI, Carbone cita il caso dell’assicuratore sudafricano Discovery che ormai 25 anni fa ha creato il modello Vitality di incentivazione degli stili di vita salutari, che ha esportato in 40 paesi nel mondo. Questo modello ha conosciuto un’evoluzione: per anni il suo approccio è stato quello che potremmo definire mass market, laddove venivano consigliate a tutto il portafoglio clienti le stesse attività. Nel corso degli ultimi due anni su questo modello è stato fatto uno sviluppo importante grazie all’intelligenza artificiale: utilizzando i dati che Discovery ha a disposizione, provenienti dai 40 paesi nel mondo in cui è esportato il modello, è stata in grado di costruire e continuamente aggiornare modelli di profilazione degli utenti e un avanzato motore di selezione e invio di raccomandazioni. Quest’architettura basata sull’AI consente per ciascun profilo di andare a consigliare la next action più significativa in termini di riduzione del rischio. “È un modello che apprende continuamente, e che tiene conto di come ciascuna persona reagisce ai consigli che vengono offerti, con un’efficacia ovviamente maggiore rispetto a un modello statico”, osserva Carbone.
LE OPPORTUNITÀ SI CREANO
Sul fronte dell’offerta, se guardiamo al mondo P&C, provando a scattare una fotografia macro a livello globale nei mercati avanzati, dove la penetrazione assicurativa è elevata, Carbone rileva “un trend, proseguito per tutta la seconda parte del secolo scorso, che ha visto una progressiva crescita dell’incidenza dei premi assicurativi sul Pil di questi paesi, mostrando quindi quanto le compagnie fossero in grado di coprire i rischi del mercato, con un’evoluzione dell’offerta assicurativa che andava a offrire soluzioni di risk transfer che diventavano più rilevanti nell’economia”. Questa corsa è poi rallentata, e negli ultimi decenni si è piuttosto appiattita. Questo significa che il settore è stato meno efficace nell’andare a sviluppare coperture adatte alle nuove esigenze della società e, secondo Carbone, c’è quindi un potenziale molto ampio di opportunità per quelle compagnie che si dimostrino capaci di andare a intercettare i rischi emergenti e di offrire adeguate soluzioni di risk transfer. L’esperto cita la tedesca Hdi (gruppo Talanx), che nel corso degli ultimi due anni ha sviluppato coperture nell’ambito dell’energia green destinate agli impianti che fanno immagazzinamento di energia elettrica e alle turbine eoliche: “sono rischi difficili, verso i quali le compagnie tradizionali hanno scarso risk appetite. Hdi è tra i player più dinamici su questo tipo di rischi, ed è andata a identificare delle soluzioni di manutenzione preventiva e di mitigazione del rischio basate sull’internet of things. In sostanza, loro assicurano solo i clienti che adottano questa tecnologia di risk prevention. Da un lato, quindi, hanno costruito una polizza che ha termini e condizioni specifiche adeguate a questi rischi che vengono protetti con questa tecnologia IoT; dall’altro lato, avendo scelto un player tecnologico con cui collaborare, hanno già tutti i processi assuntivi e sinistri integrati con i dati di questo partner”. Esistono dunque nuovi fronti di opportunità che le compagnie possono approcciare grazie a un utilizzo innovativo della tecnologia.
In Italia, un fronte in cui ci sarebbero ampie possibilità di sviluppo è quelle del cat nat, magari sulla spinta dell’obbligo assicurativo per le imprese. Per Carbone, “siamo alla prima generazione di iniziative sul mercato italiano per la realizzazione di un prodotto di ampia diffusione, e c’è lo spazio per andare a utilizzare modelli assuntivi avanzati, con modalità innovative come l’impiego di immagini satellitari e l’analisi granulare di dati non tradizionali”.
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