IL WELFARE TRAINA LA CRESCITA
La spesa sociale nel nostro Paese è un'industria che vale il 6,5% del Pil: è quanto emerge dalla prima edizione dell'osservatorio sul bilancio della spesa sociale a carico delle famiglie italiane, realizzato da Mbs Consulting. Lo studio sottolinea la necessità di considerare questa voce come una priorità della politica economica del governo, è un'opportunità di investimento per le imprese dei servizi
17/12/2017
L’importo complessivo della spesa sociale a carico delle famiglie italiane è pari a 109,3 miliardi di euro: il 6,5% del Pil. Su un reddito netto familiare medio di 29.674 euro, questa quota rappresenta il 14,6% del totale, contro l’8,7% destinato al risparmio e il 76,7% ai consumi.
La voce più rilevante (33,7 miliardi) si riferisce alla salute (l’importo medio è di 1.336 euro per nucleo), seguita dalle spese per il supporto al lavoro (31,2 miliardi), l’istruzione dei figli (15 miliardi), l’assistenza (14,4 miliardi), la cultura e il tempo libero (7,6 miliardi), la previdenza e protezione (7,3 miliardi).
Questi i dati salienti che emergono dalla prima edizione dell’Osservatorio sul bilancio di welfare delle famiglie italiane, realizzato da Mbs Consulting. Secondo lo studio, i nuclei in condizione di debolezza sono il 30,6% del totale (reddito netto medio di poco superiore a 13 mila euro e capacità di risparmio inferiore al 2%), contro l’8,5% di quelli agiati (reddito medio netto di circa 69 mila euro e una capacità di risparmio superiore al 15%).
Ragionando in valore assoluto, risulta evidente che la capacità di welfare è determinata dal reddito (le famiglie agiate hanno una spesa sociale media superiore a 10 mila euro, contro i 2.611 di quelle deboli), ma, se si considera l’incidenza percentuale della spesa sul reddito familiare, emerge che ad avere un fardello di spesa sociale molto superiore alla media (19,1%) sono proprio i nuclei più deboli.
FRA SQUILIBRI E RINUNCE
La struttura del welfare familiare è profondamente squilibrata. Uno disallineamento che genera, in tutte le aree, un esteso fenomeno di rinuncia alle prestazioni, che è mediamente pari al 36,1%, ma che sale al 56,5% per le famiglie in condizione di debolezza economica. Ciò significa che più della metà dei nuclei più poveri ha rinunciato ad almeno una prestazione di welfare tra sanità, assistenza ai non autosufficienti, cura dei figli, istruzione e cultura.
Il settore più critico è quello dell’assistenza agli anziani e ai non autosufficienti (le famiglie con questo problema sono il 7% del totale), dove il tasso medio di rinuncia è del 76,2%, e dove solo il 21% utilizza servizi a domicilio come Asa (ausiliari socio-assistenziali) o badanti.
Nelle cure sanitarie, il tasso di rinuncia è mediamente del 36,7% e sale al 58,9% nella fascia più debole, a cui si aggiungono le famiglie che, pur essendo riuscite a pagarsi le cure, hanno dovuto intaccare il proprio patrimonio (17,5%) o fare ricorso all’aiuto di familiari (8,1%); le prestazioni a cui maggiormente si abdica sono le cure odontoiatriche (45,7%), seguite dalle visite specialistiche (35,4%) e gli esami di prevenzione (31%).
A rinunciare ai servizi per la cura dei figli è mediamente il 41,1% e il 54,8% dei meno abbienti; a essere eliminati sono la baby sitter (52,4%), l’asilo nido (8,7%), la scuola materna (19%) o altri servizi (38,2%).
Nell’istruzione, il tasso di rinuncia medio è del 35,4% e del 57,7% per i meno abbienti; in ogni caso, il 76% delle famiglie affronta queste spese con difficoltà, e il disagio è ovviamente molto più grave (99%) per i nuclei più deboli; non si tratta di rinunce totali all’istruzione, ma ad attività integrative, quali corsi specifici (59,1%) e gite scolastiche (32,2%).
Sul fronte della cultura, lo sport e il tempo libero, il fenomeno riguarda 8,5 milioni di famiglie (il 33,8% del totale), con tassi che variano dal 50,5% dei nuclei meno abbienti al 15,3% di quelli agiati.
TRE GRANDI QUESTIONI
La ricerca, dunque, pone problemi e interrogativi importanti sul modello sociale da adottare, e sull’universalità delle prestazioni del welfare state. Il contenimento della spesa pubblica, infatti, sta determinando una riduzione generalizzata delle capacità di prestazione e un aumento delle spese lasciate a carico delle famiglie, che grava in modo proporzionalmente maggiore sui segmenti più poveri.
Secondo lo studio, sono tre le principali questioni di politica sociale da affrontare.
La prima riguarda la modalità di razionalizzazione della spesa pubblica, che dovrebbe essere accompagnata da un piano di rifocalizzazione, che definisca le prestazioni essenziali su cui concentrare le risorse, per garantire la qualità e la disponibilità effettiva dei servizi.
Seconda questione: come sviluppare una politica industriale che solleciti le imprese a investire nel welfare facilitando le aggregazioni e la creazione di reti e filiere di servizi, in modo da estendere le prestazioni nel territorio e dare risposta ai bisogni sociali emergenti.
Terza e fondamentale questione: come affrontare il tema della povertà attraverso un sistema di facilitazioni e sussidi che permetta alle famiglie meno abbienti l’accesso gratuito a tutti i servizi di welfare, compresi quelli erogati dall’offerta privata.
Temi, questi, su cui tutti gli attori del pubblico e del privato devono interrogarsi e operare in sinergia per la creazione di un nuovo modello di sussidiarietà.
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